venerdì 8 novembre 2013

da "L'errore" (2013)





L’impiegato lesse attentamente la sua richiesta di cambio di residenza e domicilio, poi gli chiese garbatamente di attendere.
L’ufficio era il classico ufficio anagrafico di un paesino del sud, quasi di “frontiera”, con impiegati sudaticci e non ancora del tutto digitalizzato. In tutto quattro uomini e due donne che, nel generale, cercavano di far trascorrere il tempo nel migliore dei modi. Il tipo garbato che si occupava del documento di Cetto era scomparso dietro la porta di fronte he aveva bisogno di una restaurazione energica, tanto era consumata. Anche i muri avevano quel tipo di necessità, screpolati in basso dall’umidità e sporchi di ogni sorta di sporco ad altezza uomo. Sul grande mensolone-scrittoio, spiccavano piccole cordicelle che avrebbero dovuto trattenere delle penne ormai d’altri proprietari e, in ordine troppo sparso, mille fogli di carta che alla fine della giornata sarebbero finiti nella spazzatura, come se fossero qualcosa che cade dal cielo e non il prodotto della distruzione di un albero.
Cetto non era particolarmente stanco ma, in quel momento, desiderava trovarsi a casa sua, con i suoi pantaloncini leggeri, i suoi sandali ridotti all’osso, magari a oziare dignitosamente, oppure andare avanti col quel romanzo che ormai si tirava dietro da troppo tempo e che non portava mai a termine. L’eventuale successo di quel libro, avrebbe significato tanto per lui, non tanto per i soldi, quanto per il fatto che era riuscito a raccontare a qualcun altro che non fossero i gatti, tutto quello che si portava dentro. Non era una storia avventurosa, né d’amore particolarmente idilliaco, erano solo pensieri che raccontavano di solitudine e di taciti accordi con la natura attorno a sé, natura, della quale ogni giorno percepiva i tentativi di sopravvivenza e si domandava per quanto tempo ancora avrebbe resistito agli attacchi dell’uomo cosiddetto civile.
-Signor Di Stefano?- Chiese il tipo garbato
-Si- Rispose Cetto alzandosi.
-Deve avere cinque minuti ancora di pazienza giusto il tempo che il direttore firmi i documenti-
Cinque minuti! In cinque minuti si possono firmare i documenti di tutti gli abitanti del paese -pensava Cetto.
Già. comunque, sentiva il fresco sotto la veranda e l’odore di menta che gli faceva da contorno, i giochi assurdi dei gattini, la pacata e protettiva figura dell’enorme eucalipto di fronte, persino le zanzare che infastidivano ma non più di tanto. Aveva venduto la casa in città che i genitori avevano lasciato in eredità che comprendeva anche quella casa di campagna che con piccole ristrutturazioni era diventata la sua dimora e non aveva grandi necessità, al momento, di trovarsi un lavoro o qualche fonte di reddito. Poteva benissimo occuparsi di quelle sue piccole “cose” che aveva sempre rimandato a tempi più sereni e quelli, sembrava che lo fossero.
Entrarono due carabinieri che si diressero allo sportello, dove il suo impiegato preferito li accolse.
Come solitamente accade, si trattava di un giovane ben impeccabile nella sua divisa e di un altro un po’ più avanti negli anni con una, comunque, non sgradevole trasandatezza. I tre mormorarono qualcosa poi i due militari si girarono verso Cetto.
-Di Stefano Concetto?-
-Si, sono io- alzandosi.
-Lei è in arresto per l’omicidio di Nicola Terrasanta, avvenuto a …-
Il sangue di Cetto si fermò così come tutto ciò che gli stava attorno. Non riusciva a pensare, sembrava che non ci fosse nulla in grado di sbloccare anche una sola parola. Tutto era immobile. Cetto sentì il rumore delle manette e il freddo metallo attorno ai polsi ma era come se non ci fosse più un sistema nervoso nel suo corpo, incapace di qualsiasi tipo di reazione.
Qualche minuto dopo era solo dentro una cella di sicurezza della vicina stazione dei carabinieri e solo allora, qualche parvenza di pensiero cominciava a formarsi. Ma erano tratti isolati, confusi, pensava ai gatti, all’orto che aveva bisogno d’acqua, al finestrone che aveva lasciato aperto. La sua casa, con tutti i suoi abitanti, aveva bisogno di lui che, in quel momento, non poteva fare altro che attendere.
“Nicola Terrasanta, e chi diavolo è Nicola Terrasanta”, pensava.
Nei suoi quasi quarant’anni, Cetto, era sicuro che gli unici esseri viventi che aveva ucciso fossero qualche zanzara e qualche scarafaggio ignorante, oltre al fatto che era del tutto vegetariano per non avere sensi di colpa nei confronti di quegli animali che l’uomo aveva eletto proprio nutrimento e, per quanto si sforzasse, non riusciva a collegare la sua vita con un omicidio.
Le due cose erano talmente distanti tra loro che qualsiasi volontà di collegamento si disperdeva come poca acqua dentro una grondaia secca da anni.

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