domenica 10 novembre 2013

Amante binario (1992)




La stanza era inondata da una tenue e molto soffusa luce che lasciava passare solo le note della Sonata al chiaro di luna.
Solo quelle e nient’altro.
Persino i pensieri di Andrea rimanevano immobili: nascevano e morivano là, in quella splendida mente di poeta, esausta d’esperienza e non amore.
Il salone era abbondantemente arredato di ogni sorta di stimolanti lirici che si era portato appresso da ogni parte del mondo, mentre la tastiera del piano, come uno scheletro antico, splendeva in quella penombra magica come per ricordargli quei morti che non torneranno più.
Tutto questo attorno ad un uomo stanco di cercare lei, quella lei che non aveva trovato in nessun’altra donna, ma i cui tratti aveva intravisto in ognuna di loro.
Lei doveva essere una composizione di brani delle sue poesie; un origami di romanze che gli erano rimaste intrappolate nella memoria; un’esposizione sequenziale di bello e di brutto dentro una caotica quotidianità; la casualità oppure, molto semplicemente, il se femmina estremamente uguale e opposto, talmente complementare da permettere quell’equilibrio che fa si che la luna, non precipiti nel mare e che diventi tutt’uno con la terra, né che ne sfugga afferrata dal sistema esterno.
Intanto, di là, qualcuno si muoveva con cautela, cercando di fare il meno rumore possibile, mentre sistemava la gabbia di Geronimo, il criceto bianco e marrone che le faceva compagnia quando Andrea era fuori per lavoro.
Anastasia si preoccupava di non fare alcun rumore, perché sapeva che lui stava creando e non voleva distrarlo.
In punta di piedi si avviò verso la stanza da letto ma, davanti alla porta del salone, volle fermarsi a guardare. Lui era la, affondato in una sofferenza creativa, sulla sua poltrona-dondolo, con gli occhi chiusi e un bicchiere vuoto nella mano che pendeva a sinistra. Tentava di afferrare quel verso ormai maturo, pronto ad emergere dalla cava dove si era formato. C’era una fornace da qualche parte, nel profondo del suo essere, dove venivano temprate le parole che, poi avrebbero danzato nella sua mente per diventare poesia.
Lo guardava con amore mentre lui stava la immobile ed era come se gridasse il suo nome.
Sentiva distintamente quel pensiero e, come chiamata, si avvicinò.
Era la prima volta che si accostava a lui in quei momenti particolari ma, qualcosa le diceva che doveva farlo, che lui, Andrea, aveva bisogno di lei.
Piano, leggerissima, scivolò sul tappeto, ai suoi piedi, consapevole del suo amore e appoggiò la testa sulla sua gamba mentre un sapore di malinconica tristezza e gioia insieme, le scendeva lungo il corpo fino ai piedi che, con spontanea femminilità, aveva raccolto sotto di lei.
Andrea sembrò non accorgersi di tutto ciò, voglio dire che non si scosse per niente ma, un momento dopo, le poggiò la mano sui morbidi capelli e prese ad accarezzarli con delicatezza.

 Brucia come il fuoco
di un ceppo perenne
questa smania
di trovare l’altra fiamma
che, pur confondendosi
con la mia
manterrà immutati
i propri petali

La macchina che correva dietro le palpebre chiuse di Andrea, d’un tratto mise le ali, s’impennò e volò insieme ai suoi pensieri, verso il centro di un vortice di ricordi.
Sul suo viso si disegnavano le espressioni ora tristi, ora appena allegre, ma sempre all’interno di una costante immagine malinconica, man mano che i pensieri affluivano e vorticavano da un lobo all’altro del suo cervello.
C’erano tutti in quel quasi-sogno e tutti lo aiutavano a muovere, con la giusta armonia, quella mano sui capelli di Anastasia.
A un certo punto, quasi alla fine del secondo movimento della Sonata, Andrea mosse il capo lentamente, girandolo verso di lei. Aprì pian piano gli occhi lucidi di lacrime, per guardarla e lei, come se avesse sentito quel silenzioso movimento, alzò il suo viso pieno di tenerezza verso il suo compagno. Lui la guardò come si guarda una qualcosa o qualcuno che conosci da sempre: con il suo pullover rosa, i suoi larghissimi pantaloni ghiaccio e le affusolate dita che, molto lentamente, si muovevano sulla sua gamba; lei, la stessa di sempre, sempre uguale.
Richiuse gli occhi.
La macchina nella sua mente correva sempre più velocemente, fin quando non cominciò a roteare dentro un immenso imbuto di memorie che ormai avevano perso ogni forma e somigliavano alle migliaia di corde che lo legavano al passato.
Poi l’auto si capovolse e sprofondò in un abisso senza fine, sempre più giù, verso qualcosa che non si conosce, verso un buio che è veramente buio, quella immensa voragine che ci inghiotte quando dentro di noi è solo vuoto, persino di paure.
E continuò a cadere finché un’accecante luce non esplose nella sua testa.
Scosse il capo e, girandosi verso di lei, riaprì gli occhi per guardarla ancora e la vide all’interno di un miracolo, sostenuta da un’energia che proveniva dall’origine, dal centro del cuore.
Anastasia era come avvolta da una luce nuova, diversa, strana forse, quasi non umana. Non la sentì più sua, com’era abituato a percepirla, erano un sistema dentro di un’enorme fascia di sentimenti che avvolgeva i loro corpi pur lasciando chiara
l’identità, un effluvio di sostanza e spirito che, in un’elisse perfetta, li legava come due pianeti ruotanti intorno ad un fulcro comune, un punto che era il contrario di loro, fatto di tutto ciò che non erano, cioè di assenza, di separazione, di annullamento. E loro mantenevano sotto controllo quel fulcro del non-esistere, del non-amore, dell’urgenza fisica che trova ogni sua casuale solo nella sessualità o, peggio che mai, nell’opportunismo.
Ma laddove la materia non esisteva più e quindi non c’erano motivazioni corporali, là, in quell’universo regolato solo da impulsi sentimentali, c’era solo amore, quello che non siamo più abituati a riconoscere nei volti dei nostri cosiddetti “partner perfetti” né, persino nella natura circostante. Non più, solamente amante, ma qualcosa che completava quella funzione con l’apertura di sequenze spirituali in armonia tra loro. Chimiche naturali, punti equidistanti in uno spazio creato solo per loro attraverso forze esistenziali che ne mantenevano la consistenza e l’equilibrio.

Oh carezza d’occhi
rosa mutata fiamma.
Oh effluvio di parole
senza voce,
di baci senza labbra
oh magica armonia
di sentimenti
per sempre snodati
e disciolti nella mente:
Oh amore!

Andrea sapeva di essere un sistema binario e sapeva che prima o poi, dall’altro capo della corda, avrebbe visto materializzarsi quegli occhi e quelle mani ma, non sapeva di averla così vicina… e lei era là, vicinissima anche nella mente, essenziale per vivere, indispensabile per mantenere un equilibrio perfetto, su un piano perfetto, su una perfezione “umana”, la meno imperfetta possibile. Lei, la dolce Anastasia non sapeva di essere quel ponte fatto di sostanza d’amore e di vaghe molecole corporee, lei non sapeva di essere il puntino coronato che può allungare la nota all’infinito; pensava di essere soltanto una donna, la più fortunata forse, la più emancipata, la più tutto quello che vogliamo ma, non sapeva di essere “la donna”, l’altro pilastro di quell’immenso ponte che la congiungeva ad Andrea e a nessun altro essere al mondo. In quei grandi occhi di muschio, ora non si muovevano più mille lune ma mille galassie, mille universi con tutte le loro divinità.
Anastasia era l’universo identico e opposto all’universo di Andrea, in una dimensione che soltanto loro riconoscevano tra i mucchi di ricordi e di scarpe e di sedie e di impianti stereo e di uomini.

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