La stanza era inondata da una
tenue e molto soffusa luce che lasciava passare solo le note della Sonata al
chiaro di luna.
Solo quelle e nient’altro.
Persino i pensieri di Andrea
rimanevano immobili: nascevano e morivano là, in quella splendida mente di
poeta, esausta d’esperienza e non amore.
Il salone era abbondantemente
arredato di ogni sorta di stimolanti lirici che si era portato appresso da ogni
parte del mondo, mentre la tastiera del piano, come uno scheletro antico,
splendeva in quella penombra magica come per ricordargli quei morti che non
torneranno più.
Tutto questo attorno ad un uomo
stanco di cercare lei, quella lei che non aveva trovato in nessun’altra donna,
ma i cui tratti aveva intravisto in ognuna di loro.
Lei doveva essere una
composizione di brani delle sue poesie; un origami di romanze che gli erano
rimaste intrappolate nella memoria; un’esposizione sequenziale di bello e di
brutto dentro una caotica quotidianità; la casualità oppure, molto
semplicemente, il se femmina estremamente uguale e opposto, talmente complementare
da permettere quell’equilibrio che fa si che la luna, non precipiti nel mare e
che diventi tutt’uno con la terra, né che ne sfugga afferrata dal sistema
esterno.
Intanto, di là, qualcuno si
muoveva con cautela, cercando di fare il meno rumore possibile, mentre
sistemava la gabbia di Geronimo, il criceto bianco e marrone che le faceva
compagnia quando Andrea era fuori per lavoro.
Anastasia si preoccupava di non
fare alcun rumore, perché sapeva che lui stava creando e non voleva distrarlo.
In punta di piedi si avviò verso
la stanza da letto ma, davanti alla porta del salone, volle fermarsi a
guardare. Lui era la, affondato in una sofferenza creativa, sulla sua
poltrona-dondolo, con gli occhi chiusi e un bicchiere vuoto nella mano che pendeva
a sinistra. Tentava di afferrare quel verso ormai maturo, pronto ad emergere dalla
cava dove si era formato. C’era una fornace da qualche parte, nel profondo del
suo essere, dove venivano temprate le parole che, poi avrebbero danzato nella
sua mente per diventare poesia.
Lo guardava con amore mentre lui
stava la immobile ed era come se gridasse il suo nome.
Sentiva distintamente quel
pensiero e, come chiamata, si avvicinò.
Era la prima volta che si
accostava a lui in quei momenti particolari ma, qualcosa le diceva che doveva
farlo, che lui, Andrea, aveva bisogno di lei.
Piano, leggerissima, scivolò sul
tappeto, ai suoi piedi, consapevole del suo amore e appoggiò la testa sulla sua
gamba mentre un sapore di malinconica tristezza e gioia insieme, le scendeva
lungo il corpo fino ai piedi che, con spontanea femminilità, aveva raccolto
sotto di lei.
Andrea sembrò non accorgersi di
tutto ciò, voglio dire che non si scosse per niente ma, un momento dopo, le
poggiò la mano sui morbidi capelli e prese ad accarezzarli con delicatezza.
Brucia come il fuoco
di un ceppo perenne
questa smania
di trovare l’altra fiamma
che, pur confondendosi
con la mia
manterrà immutati
i propri petali
La macchina che correva dietro le
palpebre chiuse di Andrea, d’un tratto mise le ali, s’impennò e volò insieme ai
suoi pensieri, verso il centro di un vortice di ricordi.
Sul suo viso si disegnavano le
espressioni ora tristi, ora appena allegre, ma sempre all’interno di una
costante immagine malinconica, man mano che i pensieri affluivano e vorticavano
da un lobo all’altro del suo cervello.
C’erano tutti in quel quasi-sogno
e tutti lo aiutavano a muovere, con la giusta armonia, quella mano sui capelli
di Anastasia.
A un certo punto, quasi alla fine
del secondo movimento della Sonata, Andrea mosse il capo lentamente, girandolo
verso di lei. Aprì pian piano gli occhi lucidi di lacrime, per guardarla e lei,
come se avesse sentito quel silenzioso movimento, alzò il suo viso pieno di
tenerezza verso il suo compagno. Lui la guardò come si guarda una qualcosa o
qualcuno che conosci da sempre: con il suo pullover rosa, i suoi larghissimi
pantaloni ghiaccio e le affusolate dita che, molto lentamente, si muovevano
sulla sua gamba; lei, la stessa di sempre, sempre uguale.
Richiuse gli occhi.
La macchina nella sua mente
correva sempre più velocemente, fin quando non cominciò a roteare dentro un
immenso imbuto di memorie che ormai avevano perso ogni forma e somigliavano
alle migliaia di corde che lo legavano al passato.
Poi l’auto si capovolse e
sprofondò in un abisso senza fine, sempre più giù, verso qualcosa che non si
conosce, verso un buio che è veramente buio, quella immensa voragine che ci
inghiotte quando dentro di noi è solo vuoto, persino di paure.
E continuò a cadere finché
un’accecante luce non esplose nella sua testa.
Scosse il capo e, girandosi verso
di lei, riaprì gli occhi per guardarla ancora e la vide all’interno di un
miracolo, sostenuta da un’energia che proveniva dall’origine, dal centro del
cuore.
Anastasia era come avvolta da una
luce nuova, diversa, strana forse, quasi non umana. Non la sentì più sua,
com’era abituato a percepirla, erano un sistema dentro di un’enorme fascia di
sentimenti che avvolgeva i loro corpi pur lasciando chiara
l’identità, un effluvio di
sostanza e spirito che, in un’elisse perfetta, li legava come due pianeti
ruotanti intorno ad un fulcro comune, un punto che era il contrario di loro,
fatto di tutto ciò che non erano, cioè di assenza, di separazione, di annullamento.
E loro mantenevano sotto controllo quel fulcro del non-esistere, del non-amore,
dell’urgenza fisica che trova ogni sua casuale solo nella sessualità o, peggio
che mai, nell’opportunismo.
Ma laddove la materia non
esisteva più e quindi non c’erano motivazioni corporali, là, in quell’universo
regolato solo da impulsi sentimentali, c’era solo amore, quello che non siamo
più abituati a riconoscere nei volti dei nostri cosiddetti “partner perfetti”
né, persino nella natura circostante. Non più, solamente amante, ma qualcosa
che completava quella funzione con l’apertura di sequenze spirituali in armonia
tra loro. Chimiche naturali, punti equidistanti in uno spazio creato solo per
loro attraverso forze esistenziali che ne mantenevano la consistenza e
l’equilibrio.
Oh carezza d’occhi
rosa mutata fiamma.
Oh effluvio di parole
senza voce,
di baci senza labbra
oh magica armonia
di sentimenti
per sempre snodati
e disciolti nella mente:
Oh amore!
Andrea sapeva di essere un
sistema binario e sapeva che prima o poi, dall’altro capo della corda, avrebbe
visto materializzarsi quegli occhi e quelle mani ma, non sapeva di averla così
vicina… e lei era là, vicinissima anche nella mente, essenziale per vivere,
indispensabile per mantenere un equilibrio perfetto, su un piano perfetto, su
una perfezione “umana”, la meno imperfetta possibile. Lei, la dolce Anastasia
non sapeva di essere quel ponte fatto di sostanza d’amore e di vaghe molecole
corporee, lei non sapeva di essere il puntino coronato che può allungare la
nota all’infinito; pensava di essere soltanto una donna, la più fortunata
forse, la più emancipata, la più tutto quello che vogliamo ma, non sapeva di
essere “la donna”, l’altro pilastro di quell’immenso ponte che la congiungeva
ad Andrea e a nessun altro essere al mondo. In quei grandi occhi di muschio,
ora non si muovevano più mille lune ma mille galassie, mille universi con tutte
le loro divinità.
Anastasia era l’universo identico
e opposto all’universo di Andrea, in una dimensione che soltanto loro
riconoscevano tra i mucchi di ricordi e di scarpe e di sedie e di impianti
stereo e di uomini.
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