martedì 17 ottobre 2017

a lui piaceva (2017)


 

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a lui piaceva attorniarsi di qualsiasi cosa le ricordasse lei, forse perché aveva paura che tutto potesse svanire come in un sogno, di svegliarsi e di trovarsi in un’altra realtà… e quei “segni” lo tenevano costantemente legato a questa realtà dove lei rappresentava il punto di partenza.
Aveva scritto il suo nome con delle mollette, quelle per stendere il bucato, e l’aveva attaccato davanti alla porta. Tutte le mattine aggiustava le mollette per mantenere il nome simmetrico, sempre in equilibrio. Quasi un rituale, un simulacro. Poi, man mano che lei si allontanava, cominciò a trascurare quella funzione rigenerativa, magari forzando un po’ per non morirci dietro e dentro
Stamattina, però, ci ha pensato e ha voluto guardare: era malandato ma ancora leggibile, un amore scassato ma ancora un amore…
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A lui piaceva pensare a quanto lei fosse il fulcro di tutto quel tempo, di come ogni granello di polvere le girasse attorno, a lei, che diceva di sentirsi così mediocre, spesso inutile, ininfluente, lei, era invece, le fondamenta di tutto.
A lui, tra le altre cose, piaceva scrivere, creare personaggi… e perché non farlo per se stesso, pensava. Un personaggio che gli stesse sempre accanto, da eleggere a ragione di vita, a quella creatura contenuta ma che contiene dentro sé tutti i suoi aspetti e dove le parti si confondono agglomerandosi in una forma nuova
Quindi crea quest’ultimo personaggio, che chiamerà Papo in ricordo della sua gattina che chiamava Papù che un giorno sparì e di lei non seppe più nulla. Il connubio con la gatta, era così intenso ed empatico, che lui non aveva bisogno di parlare né lei di miagolare.

Sembrava tutto uscito da una fiaba, troppo perfetto per essere reale comprese le imperfezioni, facevano parte del gioco e quindi non disturbavano. E lui ci pensava a queste cose e si domandava se anche lei se ne ricordasse…

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Quella mattina sembrò che le realtà si fossero capovolte, gli sembrò che fosse lui ad essere apparso al giorno sorpreso…
Stava lavorando alla stesura di un romanzo, e ci stava sopra senza orario, instancabilmente. L’aveva iniziato qualche anno prima, ripreso più volte e mai completato. Stavolta sembrava deciso a concludere e ormai era alle ultime battute, la scena di una cena chiarificatrice che sembra lasciare tutti felici e contenti. Non riusciva a collegarla al capitolo precedente, aveva perso il filo e adesso aveva difficoltà a riprenderlo. Ma quella sera dovevano andarci degli amici a cena e avrebbe approfittato per trovare una soluzione alla scena, a parte, ovviamente,  la distrazione che avrebbe rappresentato.
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Non c’era un senso logico a quello scorrere degli eventi, in maniera così disordinata, così senza linea… un po’ come le balene che si arenano in improbabili spiagge senza che sappiano almeno perché stanno morendo…
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A lui piaceva pensare che il colore dei fiori dipendesse dai desideri di chi li osserva per questo adesso non si avvicina più ai fiori, per non svelarsi, per non dividere, poi,  la sofferenza, anche se questo significava rinunciare a qualche gioia. Sapeva pure che non si possono eludere gli invisibile legami e non tutto è percettibile con certezza: Rimane sempre il dubbio se siano le risposte a fare  le domande.
Per lui, il più grosso motivo di sofferenza era quello stato di non morte in cui si erano cacciati e, ancor più pesante, se in quello stato ci fosse solo lui…
ma a lui piaceva pensare il contrario…
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A lui piaceva partecipare agli incontri artistico letterari, e riceveva spesso inviti, che gradiva, ma in quell’ultimo periodo trovava sempre una buona scusa per evitarli. Non sarebbe riuscito a raggirare l’anima in una circostanza che avrebbe potuto rimettere tutto in discussione, questo avrebbe ulteriormente tradito un’immagine già compromessa e proprio non si sentiva di affrontare problematiche che in altri tempi, sarebbero stati il classico giochetto da ragazzi.
Ma a camminare per strade ormai corridoi con tanto di minacciose pareti e senza un filo d’erba, credo gli sembrasse orribile, qualcosa che ha a che fare col purgatorio e fa male a sentirsi scorticati vivi.
Per questo, lui non partecipava a nulla, nemmeno alla sorpresa del suo specchio, quando lo vedeva vivo per casa.
Poi c’erano i giorni in cui avrebbe “rischiato” e mai che ci fosse alcuna occasione. Si ricordò di un dibattito sulla poesia al palazzo della cultura, li difficilmente avrebbe incontrato vecchie conoscenze.
Ma non andò  precisamente come lui pensava, perché, invece, incontrò parecchi amici, per fortuna nessuno di indesiderato. Fin li, sembrava andare tutto bene, ma quando qualcuno gli presentò quella divina creatura, un grande turbamento riempì la sala tanto che tutti sembrarono ringiovanire e le pareti si tinsero di un colore che pensava esistesse solo nei suoi sogni.
Il suo nome era Eva, anagramma di anima…
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A lui piaceva credere che tutte le parole fossero vere e che dietro ogni verbo non si nascondessero ambigui svolgimenti. Certo, sapeva bene che non era così semplice, che la bugia sta all’uomo come il prezzemolo sta a “ovunque”,  e senza alcun motivo, spesso. 
Lui voleva pensare che quella volta fosse stato davvero diverso, che il sogno di una vita si fosse avverato… ma perché avrebbe dovuto esserlo? Cosa c’era di diverso in quella storia rispetto alle altre?
Forse per via di quella decisione che non avrebbe più avuto relazioni di tipo amoroso con alcuno, dichiarando “ultima” già la storia precedente? E cosa c’era di speciale in una donna “qualsiasi” che viveva la sua vita come altre milioni di donne, senza niente di particolare o speciale, che non fosse solo la stupida voglia di “santificare” quel rapporto eleggendolo a “dono divino”? A lui, però, piaceva immaginarla regina, padrona assoluta del suo cuore, matriarca  e senso… dico, ma come si può affidare la propria vita ad una persona piena di contraddizioni che dice, dice, e mai resta, o ammette, e nemmeno cerca di capire quello che rimane di te…
Lui pensava a tutto questo, capiva che quello che non riusciva più a ricreare attorno a sé, pensava, potesse essere lo stesso per lei, ma scopriva, giorno dopo giorno, che non era per niente cosi, che probabilmente non lo era mai stato. Per lei tutto aveva un continuo, e lui era stato solo un personaggio che aveva attraversato la sua vita,  che aveva preso il suo tram, uno dei tanti che popolano la vita di ognuno di noi, ma poi si arriva alla fermata e si deve scendere e… avanti un altro, e un altro ancora fino al capolinea, come è normale che sia. Perché  sarebbe dovuto essere diverso? A volte qualcuno ci rimane un po’di più su quel tram, scende qualche fermata avanti, ma quanto tempo perde poi  per tornare indietro e ripartire da quel punto dove ancora si potevano aprire tante finestre a nuove primavere… se le è viste passare le primavere senza raccogliere almeno una margherita e a lei di questo non importava, a lei non interessavano le primavere,  solo chiacchere che adesso starà comminando a qualcun altro al quale fare tenerezza... ma,  nonostante tutto, a lui piaceva pensare che lei stesse soffrendo quell’assenza in qualche modo…
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Eva creava attorno a se la magia della prima volta, un alone di fascino e mistero che ingarbugliava la mente anche se, per molti aspetti, faceva intravvedere i futuri fantasmi che avrebbero popolato le notti strane, già piene di troppe parole morte. Era bella Eva, lui direbbe bellissima; si era sempre circondato di donne bellissime, affascinanti, intelligenti, perché lui amava l’intelligenza all’interno della bellezza, perché al contrario, pensava, sarebbe stato facile trovare la bellezza nell’intelligenza: tutte le persone intelligenti sono belle!
Eva era anche, oltre a tutto questo, l’apparente “salvezza” che la natura gli aveva donato per riuscire ad uscire dalla galleria buia in cui si trovava, da quella non morte che bloccava, e respirare una bocca nuova e piena di energia. Eva era la zolla che riprende, la sanarìa necessaria, la pianta officinale che salva, l’obbligo della libertà, perché la libertà è un obbligo verso la creazione e dove “obbligo” significa piacere… e lei, Eva, era l’esistere oltre il tempo e lo spazio, nel senso più pieno della parola.
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A lui piaceva pensare che sarebbe andata come sempre, che tra un po’ di tempo, ma già era tardi, avrebbe dovuto mettere tutto nell’archivio, che doveva essere più un dimenticatoio che un deposito di ricordi e la presenza di Eva agevolava parecchio questa congruenza, ma non ne era la causa e a lui piaceva pensare che lei fosse il nuovo arcobaleno, e con più colori…
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Gli capitò per le mani, mentre rifletteva su questo o quell’oltraggio, il testo del “monologo del silenzio”, la prima scrittura “ufficiale” che parlava di lei o, comunque a lei si riferiva. Lui la lesse ad un pubblico che ascoltava attento,  ma era a lei si rivolgeva a mente aperta e senza riserve, e lei pianse quel giorno o almeno così sembrò, mentre l’ascoltava.
“monologo del silenzio” -  “da quanto tempo piove… e noi aspettiamo, aspettiamo nuove margherite sbocciare per poi contare quel che non torna.
quanti silenzi sono passati sette, otto, e chi li ricorda più, e chi li mangia più se poi, a tentare di sorprenderli sono tutti uguali i silenzi e parlano di niente e non hanno occhi cosi da vedere quanto sei stanco di ascoltarli. e parlano, parlano di città nuove, parlano, fermi come sono, di baci, di storie che potevano andare diversamente, di quella volta che avremmo potuto parlare noi e che, invece, abbiamo lasciato le parole in mezzo alla folla. oh, lo sapevamo, lo sapevamo che la folla allontana e lui, il silenzio, è arrivato, in perfetto orario, fantasma di te e di me, per portarci via, coperti di sughero e senza farci capire che la libertà non sta mai da una sola parte.
ora, amore che non sei facile, che da sempre ti batti per farti capire interamente  e che ci vogliono più di sessanta lunghi anni per capire una briciola di te, ora, amore, sei nuovamente qui, negli occhi dell’ultima donna, che già c’era stata l’ultima, che non doveva esserci un’altra ultima, che quando sei giovane lo dici continuamente e sai bene che non è così, eppure ci credi. ma quando il corpo ti comincia a tradire, quando il peso di una vita diventa insopportabile, quando sai che il bene che puoi dare è enorme ma solo dentro te… ecco, l’ultima donna, quella che non avrai tempo per dimenticare.”

Ecco, e lei pianse quel giorno…
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a lui piaceva sentirsi considerato, specie quando questa, la considerazione, si traduceva  in “particolari attenzioni”, quel tanto piccolo che lascia ancora il senso di appartenenza, quello che quando lei si ricorda che troppo aceto ti fa male, che, non salire le scale di corsa o, più grande, mi piace tutto quello che fai... che poi erano il ritorno di quello che lui lanciava… si, a lui piaceva essere considerato, perché  lui l’aveva fatto prima, conosceva i codici: Se voglio amore, quello devo dare!
Quello che mancava era la presenza.
Tutti i piccoli desideri, i più profondi, diventavano sempre più. particolari attenzioni, quelle che distinguono un amico da qualcuno che ti fa battere il cuore e altro, ma non c’era modo di verificarli in pieno, il tempo era sempre meno. Era molto grave e stupido non chiedersi allora, perché il tempo era sempre meno e, tolte le scuse, rimaneva il lento sbiadire della  la volontà di lottare per qualcosa in cui non credeva più.
A lui piaceva credere che, a quel punto, il mondo avesse già capito e avrebbe cominciato a girare nel verso giusto. Ma c’era un senso giusto? Se fosse esistita un’altra possibilità, avrebbe potuto anche aver ragione lei: Se mi lasci sei un bastardo, se ti lascio io è una libera scelta!
Giusto, sennò che regina sarebbe stata? Ma era stato lui ad eleggerla regina, qualche volta avrebbe dovuto ricordarsene.
Non poteva aver  quella ragione che tutti le davano,  lui non era così rincoglionito da non riuscire a capire che si trattava di ben altro e che le “ragioni”, erano solo opportunità di ogni genere, opportunità per gli altri, che le mostravano improbabili armi a difesa si,  ma dei propri interessi. Ma opportunità anche per lei, che avrebbe pagato meno di quello che le spettava…
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10°

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A lui piaceva che tutto andasse bene, che scorresse,  che i piccoli desideri si esaudissero man mano che si evolvevano, ma non era mai così.
Giovanna non era in forma ultimamente, e  le vicende con l’ex fidanzato sembrava l’avessero esaurita. Lei, bella e giovane com’era, avrebbe potuto avere molto di più dalla vita, invece aveva perso tempo in quella sterile e stupida storia. Lui la conosceva da più o meno quattro anni, e lei era sempre presente quando lui organizzava eventi artistici dalle sue parti. Giovanna le era sempre piaciuta, ma di un piacere pulito tranquillo, e poi, comunque, era “distratto” da quel colosso di sentimenti che rappresentava Papo. Certo, qualche volta ci pensava, ma lui non riusciva a tradire, lui odiava il tradimento considerandolo tra i delitti più atroci contro l’uomo.
E’ stato un caso l’essersi incontrati e aver ripreso quel “piacere” che tanto loteneva sereno: era un tranquillante naturale, Giovanna, non un analgesico!
Un paio di telefonate, qualche ora in chatt, riuscirono, per un breve tempo,  a creare un ambiente sereno, spesso giocoso… poi, forse lui si spinse troppo in avanti e mise lei in una posizione di difesa e a chiederlo, non aveva risposte,  né motivi.  
Ma ci pensava e, credo, gli mancava quella breve armonia che erano riusciti a creare, nonostante l’inferno che li circondava.
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Ma a lui piaceva pensare… e pensava a tutto quel mondo che si stava lasciando dietro, un mondo all’interno di un palcoscenico dove cambiavano i personaggi ma si ripeteva la scena di sempre e sapeva che anche da qualche altra parte stava accadendo la stessa cosa: Altri personaggi a riempire i vuoti lasciati dal collasso di quell’amore, inconsapevoli protagonisti di niente!
Giovanna, la sua assenza, sta lasciando che i fiori del ricordo continuino a fiorire e… quel desiderio di andare sull’Etna, magari in quell’immenso farci l’amore e sentire le vibrazioni della terra sotto i piedi, magari, quel desiderio, sarà un altro ad esaudirlo, il mio, il suo desiderio… ma Giovanna non c’entra con tutto questo, lei è così dolce…
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11°

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La decisione di Gisella sembrava ormai irreversibile, ma a lui piaceva pensare a quanto quella svolta le avrebbe cambiato la vita. Trasferirsi a Roma per frequentare i corsi di cinematografia, era ormai l'irrinunciabile sogno che si preparava ad affrontare.
Per lui rappresentava un motivo d’orgoglio, ché se Gisella fosse diventata quello che, in fondo, meritava, un pochino era anche merito suo, ma, dall’altra parte del pensiero, però, Gisella rappresentava pure l’ultimo baluardo di un complesso insieme, che lo aveva visto indiscusso protagonista, e adesso anche lei se ne stava andando.
Verso chi avrebbe riversato tutto quell’amore?
Se ne era accumulata una quantità enorme durante questo tempo vuoto, una quantità tale da diventare ingestibile… continuare ad amare incessantemente qualcuno che ha chiuso tutte le finestre aprendone altre, dalle quali, anche lei riverserà quantità abnormi di amore, amore vuoto a perdere, che i destinatari crederanno vero, e anche lei ci crederà infine e a lui questo non piaceva, ma non poteva farci nulla se non assistere alla partenza di quella gioia che era Gisella e alla inesorabile fine di tutto quel mondo. Eva, Giovanna, Anna, Daniela, persone molto vicine a lui, che in qualche modo gli riempivano la vita, ma di un altro mondo, un mondo a venire che non si poteva, in alcun modo, prevedere…
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a lui non piaceva tutto questo…
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12°

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I suoi figli, Simona e Andrea, sapevano di quanta libertà ci fosse dentro quel papà così “strano”, quel padre che andava al bar di fronte, a prendere il caffè in pigiama, che non si era mai curato del pensiero di quegli altri che non gli interessavano, ma che con infinita amorevolezza li aspettava, sempre, qualsiasi tempo facesse r in qualsiasi tempo.
Loro sapevano pure dei suoi tormenti, di quanto grande potesse essere il dolore che lo consumava, del passato ossessivo, del presente devastante, del futuro nullo…
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tutte quelle storie, l’America, il Circolo Polare Artico, la loro mamma, Leonor,  la poesia… e poi lei, grande e controversa protagonista di quella parte così delicata della suaesistenza, l’infarto e il conseguente cambio di tutta la sua vita… tutta quella gente che prima era là, accanto a lui, quasi ad adorarlo… e ora, il vuoto, un niente fatto di niente, illusioni elette a quotidianità dove, quello strano papà continuava a cucinare per due, con una gioia che male nascondeva l’infinita solitudine dove era stato scaraventato, loro, i suoi figli, sapevano… e sapevano pure di quel senso d’impotenza che lo riempiva fino all’orlo, di non riuscire ad essere più quell’esempio che loro s’aspettavano, che moriva ogni notte e rinasceva solo per loro, in una dimensione che se non era buio, gli somigliava molto. Pensava di averli delusi, quei figli che erano la sua vita, di averli traditi, di aver smesso quel ruolo di padre/maestro per un altro che non gli si addiceva per niente: il ruolo di “inutile” quale qualcuno l’aveva fatto diventare…
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i suoi figli sapevano…
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13°

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a lui piaceva credere che lei stesse male almeno quanto lui, ma non era così, lei aveva già cambiato sogno, il destinatario del suo buongiorno e della sua buonanotte. Era la bimba di qualcun'altro che la stava comprendendo interamente e senza egoismi: il suo sogno vero... altro che case umide, pullman, assurdi incontri, pranzi anche fin troppo barocchi per essere gradevoli e letti freddi o troppo caldi, appiccicosi... vuoi mettere l'aria condizionata, i lumi di candela, le frasi baci perugina sussurrati ad un millimetro dalle labbra... vuoi mettere? E le opportunità?
Ma a lui piaceva credere che lei lo pensasse continuamente, che non c'era un attimo della sua giornata in cui lui non fosse, in tutti i modi, presente, che quel legame era davvero indissolubile e che pur nel silenzio più assurdo, le grida imbrattavano le pareti schiantandovisi contro violentemente.
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Si, a lui piaceva credere...
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14°

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Avevano dato tutti torto a Luisa, ma la sua tendenza a giustificare sempre, quel suo essere aperto anche verso le “distorsioni”, al fatto chiaro che ognuno di noi legge a modo proprio la vita di chi gli sta attorno, gli lasciavano sempre quella domanda: E se fosse così come dice lei?
Si domandava continuamente, lui, da che parte fosse la verità, ma da entrambi i lati c’erano due persone che amava ed era sempre più difficile scindere.
Naturalmente la tendenza era sempre a credere più in lei, Papo (che nonostante tutto si ostinava a pensare il contrario), trattenendo comunque il dubbio sulle versioni di Luisa che si allontanava sempre più, lasciando che si sviluppasse quel gigantesco vuoto che avrebbe investito tutti, soprattutto da quando Gisella aveva preso altre decisioni e altre direzioni, cosa che la sconvolse talmente tanto, al punto di mettere la cosa in cima a tutte le priorità, e non solo le sue.
Avere tanti amici, persone che ti stimano e ammirano, che ti seguono, quasi mai è sufficiente per sopravvivere alla “vuotità”, e lui ne era consapevole. Sapeva bene che una parola, una sola parola proveniente da lei, valeva più di tutte quelle dei cento amici che lo circondavano. Forse il torto di Luisa, furono alcune “distrazioni” che mostrarono un lato inedito di questa donna, un lato ritenuto poco conveniente per alcuni, giustificabile per altri o comunque, riducibile ad un “sono affari suoi”, ma che, comunque, coinvolgeva tutti! L’errore di Luisa? Mettere in discussione tutto e pretendere chiarezza laddove lei stessa oscurava. La realtà era evidente agli occhi di lui: Uniti da un punto mobile ma in mondi e modi di vivere la vita assolutamente diversi!
Non si poteva pensare a giustificazioni, loro erano anche fin troppo adulti per cercare giustificazioni, non servivano, bastava vivere ciascuno il proprio e lasciare fuori dalla propria vita intima tutto il resto.
Mi capito spesso di sorprendere lui a pensare che tutto quel meccanismo potesse essere stato, in qualche modo, pilotato, di certo a livello subcosciente, una sorta di volontà superiore che spingesse a frantumare una realtà fittizia, il classico “troppo bello per essere vero”, che quando accade, bisognerebbe viverlo anziché indagare dentro di esso fino a svelarne le armonie a noi sconosciute e quindi a frantumarlo come un sogno al mattino. Svegliarsi in piena notte per vedere se ti trovi dentro un sogno o in una qualche improbabile realtà, per lui era una sciocchezza dentro la quale, però vi caddero tutti, lui compreso.
Luisa, che tanto gli era stata vicina nei momenti più tristi, negli stati di profonda solitudine, nelle notti di malessere fisico quando la pressione sanguigna di lui ballava con numeri assurdi, al limite del fatale, lungo le cene sofferte, quella Luisa, adesso era presente quasi come un ologramma, nel tentativo di mostrare chissà quale “verità”, dove non ne esisteva più alcuna...
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A lui piaceva pensare che le macerie si possono utilizzare per ricostruire…
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15°

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Lui era al telefono, di quelli con la cornetta, un vecchio telefono bianco che teneva caro…
“Cosa, non ti trovi dentro ciò che scrivo? Ma che diavolo dici, se ogni virgola, ogni lettera, anche gli spazi vuoti sono pieni di te…  ti ringrazio per quello che hai detto, della meraviglia con la quale vesti ciò che scrivo, ma sei tu, inevitabilmente tu, non può esserci altro, perché una persona non si sostituisce con quella facilità con la quale, sembra, tu abbia sostituito me, è questa la differenza tra noi…  si è vero, ci sono persone che mi prendono, che mi danno mille motivi, ma quello è un mondo diverso, è il mondo del  “poeta”, un mondo pulito, comunque, anzi forse il più pulito, il più onesto, un mondo che tu conosci,  lo stesso mondo di quando “eravamo”, ma da qui a dire che ti ho cancellata… stai esagerando. rimani, e rimarrai, perché nulla si cancella, perché quando dovrò vivere di ricordi, voglio vedere il tuo di viso, tutte le tue e nostre cose a sorreggere quel vivere, assieme, naturalmente alle altre cose che hanno fatto questa mia vita, ma con te al finale, quindi, indispensabile. Devi chiudere? Va bene, ma promettimi che ci sentiremo di quando in quando, che mi farai ancora sentire partecipe della tua vita, di come stai, di come sta tua madre, se i ragazzi crescono bene, se… se ci pensi qualche volta a quanto poteva essere diverso se…”

Poi, lo vidi lanciare il telefono contro una parete, un telefono muto, non trattenuto da alcun filo, che non aveva detto niente e niente aveva sentito. Ero preoccupato, da giorni non mi parlava, anzi, mi evitava…
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A lui piaceva farsi del male camuffandolo con la maschera dell’ironia, si, a lui piaceva farsi del male…
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16°

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Marta era la serenità. Lui amava Marta, da sempre, per quello che rappresenta… lei non era la ragazza qualsiasi, carina e intelligente, Marta era molto di più di questo, era la pace, era l’olio buono, la vicinanza distante, la ricerca che non si compiva mai… Marta era da amare ma non si poteva dire. Poi la grande distrazione e lui girò lo sguardo verso chi sembrava mille Marta, mille paci e centomila sogni… e Marta rimaneva lì, senza attendere, perché non sapeva, non ci pensava, forse più vicina di quanto lui potesse credere, ma nel suo mondo fatto di altri amori di altra vita, anche se il bene che si volevano, adesso combaciava, ed era bene e nient’altro.
Poi… lo prese per le braccia, lo sollevò spingendolo col suo corpo e, semplicemente gli sistemò il cuscino, il cuscino di un infermo,  che avrebbe dovuto sistemare qualcun altro, ma lo fece lei, e il bene crebbe… molto…
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A lui piaceva il bene, e quando lo sentiva sincero, lo chiamava amore, un amore pulito, perché non possono esserci due amori o tre, di quelli che la passione travolge e consuma, di quelli,  può essercene solo uno. altrimenti si chiamerebbe inganno e lui viveva già dentro un amore di quelli.
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Lui amava Marta e pure lei gli voleva bene, e tanto…
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17°

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Lui era convinto che il pensiero fosse una forma d’energia quantificabile, che le onde celebrali si propagassero così come le onde elettromagnetiche o addirittura, attraverso esse. Che se una persona si trovasse a pensare a un’altra persona, in qualche modo, all’altra persona il “messaggio” sarebbe dovuto arrivare.
Può darsi, dapprima, intraducibile, però, qualora l’altra persona avesse prestato maggiore attenzione, il messaggio sarebbe diventato sempre più chiaro, identificandone persino la provenienza, fino ad entrare dentro come un timore o gioia dipendente dal valore se positivo o negativo.
Questa cosa un po’ lo ossessionava perché, per via di quella teoria, visto che lui la pensava costantemente, in qualche modo, anche dall’altra parte, poteva essere lo stesso e, per inversione dei fattori, il suo pensiero costante poteva essere il risultato di un costante pensiero.
Certo, se una persona se ne stava spesso alla finestra, quasi esageratamente, poteva essere un cercare di veder passare qualcuno di importante per lei, ma non è detto che questo potesse essere lui…
Importante, e perché?
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Ma a lui piaceva la teoria sulla reciprocità, ci voleva credere…
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18°


Effettivamente, poi, uno si frantuma le recondite armonie nel dire o nel fare cose che non interessano a nessuno, a partire da egli stesso, allora dice: che senso ha tutto questo?
Quando ti ritrovi che ti hanno incastrato e in qualsiasi caso la colpa è tua, perché continuare a combattere? Non ci si sente un po' folli nell'andare a sbattere la testa sempre contro lo stesso muro? Non ci si sente un po' idioti?
Potrebbe funzionare il "tutti a fanculo", ma non è facile, perché gli altri, quelli là, ti confondono, ti fanno quelle faccine di vittime divorate dalla solitudine, di solitudine! Anche le smile ti confondono... e ti ritrovi a credere ad improbabili sofferenze, ormai troppo dubbie, anche le tue, che da un sacco di tempo, lo specchio non ti vede. Cos'è, prende la vergogna per il fallimento? Si, accade, e allora? Ma dirlo alla causa della vergogna, è opportuno? Lasciamo perdere i racconti e le fantasie... e continuiamo questa vita che per quanto vuota, è sempre più piena di certi niente…


19°

[…]
a lui piaceva la lealtà, per questo la pretendeva.
Quando incontrava una persona, la fase di “osservazione” durava molto poco, giusto l’indispensabile.
Lui credeva che le opinioni potessero cambiare con la conoscenza, ci credeva fermamente al punto che non si curava più di tanto dell’approccio, che doveva rimanere nella dimensione della “cortesia” e delicatezza. C’era tempo per le dichiarazioni di convinzioni divergenti che, comunque, non avrebbero dovuto o potuto compromettere la stima o quant’altro.
Era il subdolo che non riusciva a mandare giù, la realtà volutamente falsata a vantaggio dei propri opportunismi, l’inutile bugia che avrebbe cambiato il corso delle cose e l’avrebbe deviato anche se di poco, ma alla lunga ci si sarebbe ritrovati a miglia di distanza senza capire più nemmeno dove o quando ci si era sbagliati. Era in quel momento che si sarebbero dovute chiedere spiegazioni ai diretti interessati. Don Chisciotte andava direttamente dai mulini a vento, non chiedeva a qualcun altro perché quelle enormi braccia ora,  giravano al contrario e, lui pensava, questo accadeva solo perché non si aveva il coraggio, né la faccia, per affrontare la verità. A lui bastava questo per capire chi aveva torto, chi non era stato leale, e smetteva di combattere contro nessuno, perché quelle persone erano nessuno.
Erano solo palloni gonfiati d’aria sporca, fraudolenta, piena dei propri interessi e gonfiati dagli stessi che lui avrebbe voluto difendere, ma si sa, chi si prende cura dei mocciosi, o rimane sporco di cacca o, al massimo, di pipì.

Ci volle tempo per ammetterlo a se stesso, ma lo aveva capito da parecchio quell’inutile valore.
[…]
Ci volle tempo, purtroppo!

20°

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a lui piaceva credere che le persone fossero pulite, più di lui stesso. Per questo quando Vittoria fece ingresso nella sua vita, la sentì come la medicina contro quelle ferite che lo avevano afflitto e continuavano a sanguinare. Lei, Vittoria, in pochissimo tempo riuscì a rimettere un sorriso sopra il becco del rapace che gli consumava il cuore, che ricresceva ogni notte dai sogni che, e lui lo sapeva, rimanevano sogni. La delicata bellezza di lei, diventava sempre più musa, lo ispirava in una nuova poesia perché, quella delicata bellezza, era poesia.
Non voleva credere nell’inganno, a lui piaceva pensare di essere stato frainteso, che alcuni fattori esterni avessero avuto un ruolo fondamentale nella deviazione delle “possibilità” e che la storia alla quale aveva creduto così tanto, fosse finita per colpa, non per dolo. A lui piaceva credere che le persone fossero pulite, ma si sbagliava e adesso ne stava piangendo le conseguenze.
Vittoria era l’uragano che spazza via tutto, il vento buono che può riuscire a far rifiorire la speranza che qualcosa di buono possa esserci ancora. Lei era la presenza che voleva in quel momento senza tempo.

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Si, a lui piaceva ricordare, ma di più, piaceva vivere con tutte le sue cicatrici.

















domenica 10 maggio 2015

Anna delle meraviglie (2015)

Anna e Alice non si conoscono. Anna e Alice, in comune hanno un paese e una A. Il paese di Alice è nei suoi dintorni. Anna è il paese.
Quando, in questa vita, conobbi Anna, pensavo ancora che il mondo fosse fatto di cemento, di vetro, plastica e asfalto, ma anche di alberi, acqua che scorre e variopinte sensazioni. Quello che mi girava attorno era il reale, quello che tutti vediamo, il panettiere, la coca cola… Anna, mi ha detto “guarda, guarda il mio seno, non vedi quanto universo?”.

In realtà non mi ha detto proprio così, ma è quello che ho sentito, e quello che ho visto era l’origine della vita sensuale, ma anche materiale, in una prospettiva diversa da tutte le rappresentazioni fino a quel momento, da me conosciute. E dire che ne ho viste di “rappresentazioni” ampie fino al margine estremo, ma lei, Anna, ha tolto le staccionate e annientato i confini fino a farmi vedere la mia stessa nuca guardando avanti.

Anna è tutto l’inedito che ruota attorno al mio mondo di carta e di parole, ciò che ho cercato tanto ma non sapevo chiamare e lei non sa di essere l’altro capo del filo, ciò che ho creduto esistesse solo nella mia fantasia. La mia fantasia si chiama Anna, io la cercavo la dentro e invece… come potevo vederla se lei era io stesso ed io lei?

Ho bisogno di bere qualcosa, ricordarmi che sono umano e mortale, perché Anna, mi ha tolto questa sensazione, rendendomi eterno, nuvola, vento e tutte quelle cose che non finiscono mai.

Sapete, quando passano quelle meteore violente e luminosissime, si crede che si abbia avuto e vissuto il massimo, che niente può superare quel tipo di impatto. Lo credevo anch’io, fino a quando un silenzio pieno di parole non si è infilato dentro il mio pigiama, ha pianto nel mio bicchiere, mi ha terrorizzato con un’idea, mi ha riempito con il suo “abbandonarsi” e poi, Anna, si è affacciata dalla mia anima dicendo “ sono qua, dove stai cercando…” e l’ho vista, finalmente, bella, come me, viva, piuma, tigre, acqua, tempesta e amore, proprio come me, la mia stessa vita, il respiro, si, proprio così.
Saper credere non è facile, scavare nella giustizia dell’amore, quello che sta lassù, incontaminato da giudizi o quant’altro.

Desiderare? Cosa, un corpo? no, il desiderio è di più, un corpo riesce ad appagarti anche se per breve tempo, fino a diventare un analgesico, il desiderio, quello che Anna ha svegliato, che abbiamo svegliato, è una costante che  non smette mai d’essere perché è ovunque, in ogni gesto, in ogni direzione, dalla padella al sogno, dai calzini al bacio, sulla punta del naso all’orizzonte che sfugge. È senza filtro. È  codice naturale. È Dio! Madonna mammifera che allatta l’universo e non si ferma mai.
Il desiderio non si risolve nel vivo tormento del seno e della bocca, alla carne che chiama, alle pupille dilatate. Certo non sono solo le maree dei suoi occhi, il fresco delle sue mani addosso o le aderenze del corpo intero, in un concavo/convesso che non conclude, ma apre percorsi sempre più nuovi e luoghi dove riposare.

Penso che non può non essere compreso, penso che appartiene a noi, che il desiderio siamo le persone che non temono, che non hanno nemmeno necessità di parlare o di toccarsi perché hanno il silenzio e lo sguardo, che hanno i mari che vogliono ed anche gli angoli segreti dove possono rimpicciolirsi fino a diventare invisibili; possono diventare cuscini oppure vastità, possono tutto. Chi non ci riesce è perché non ha Anna dentro. Cercatela, tutti abbiamo una Anna dentro, cercatela!

Adesso ho fame. Quant’è buono il sedano con la maionese.

Quando noi, Anna ed io, non andiamo a Parigi, facciamo passeggiate immense sul lungosenna, alla ricerca di quei dettagli che servono a riempire un cielo già pieno, quei tasselli per completare il puzzle dell’istante eterno. Poi, con un piccolo salto andiamo a mangiare una
zuppa di pesce a Cadice e ci affacciamo sull’oceano, a sentire il sale addosso senza temere alcun male. Non abbiamo fretta, perché il tempo è dalla nostra parte e ci coccola.
Aprire gli occhi non cambia nulla, perché anche lo spazio è con noi e si allarga e restringe e si adatta alla nostra passione d’esserci, ma solo insieme e null’altro.
Quando è sera, poi, si svelano tutte le magie e Anna diventa la fata che accoglie, il contenente contenuto  ed io contenuto che contiene e lei mi trasforma settemila volte per ogni attimo e ci conteniamo come gemelli nel grembo della terra, abbracciati, a proteggerci, a proteggere l’immenso che abbiamo, il dono che non ci siamo mai scambiati perché il dono siamo noi stessi. Ecco perché lei diventa uomo e mi trasforma in donna, affinché si possa ben comprendere quello di cui abbiamo bisogno. A volte siamo due donne, altre due uomini, ma sempre noi: Anna ed io.

Noi ci nutriamo di noi, ci consumiamo e ci rigeneriamo continuamente: lei mi partorisce e io la fecondo e muoio per farmi ripartorire. Io, pietra e volo, nasco da lei, continuamente.
La sera, anche di giorno, ci fa domande sull’amore, perché vorrebbe spargerlo laddove ce ne bisogno, e Anna glielo racconta, con la sua voce di mare e sangue e io le ascolto, donna e sera, fuoco e millenni
riempiendomi di armonie sorprendenti di gesto e avvolgente abbraccio.

Oh, quando mi lascia solo -lei lo fa- e sapete perché? Perché vuole mancarmi, perché vuole che il desiderio cresca sempre più e vuole mancarmi, capite? Come se ci fosse ancora spazio da qualche parte… e io vorrei dirle “ ma se mi manchi e ti ho allo stesso tempo, e mi manchi mentre ti ho e ti  ho mentre, contemporaneamente, mi manchi…” Che casino, forse è meglio che non dica niente, già mi son confuso, tanto lei lo sa e sorride. Oh Anna!

Quando mi ha abbracciato la prima volta, lei era distante almeno vent’anni. Io ero ancora babbuino a quel tempo e crescevo pigramente e lentamente,  mentre lei, nonostante fosse arrivata dopo me, già odorava di donna ma con ancora molti peli addosso. Io la guardavo, da lontano e pensavo: “Ma che bella scimmietta”. Certo non potevo immaginare che i secoli ci avrebbero trasformati così tanto, e poi non avevo neanche studiato, ero un somaro… cioè un babbuino analfabeta. Poi lei sparì, ingoiata da chissà quale era e, da quel momento, davvero cominciò a mancarmi. Quella scimmietta mi mancava e bestia com’ero, non capivo neanche il perché. Tuttavia cominciai a cercarla, a chiedere, ma niente, nessuno mi dava risposte concrete.

Più avanti, magari, vi racconterò del cammino per tentare di raggiungerla, le sfide col tempo, le scommesse con la morte, i pianti e le speranze, il conservare gelosamente il ricordo affinché il tempo non me lo portasse via!

Quando l’ho rivista, (quarantamila anni ci son voluti) l’ho riconosciuta subito, nonostante non avesse più i suoi splendidi peli, ma gli occhi, quegli occhi meravigliosi, quegli occhi di quando si gira sorpresa di quello che già sa, quel mare immenso dove navigo curioso, quelli erano gli stessi occhi di quella dolce e amorevole scimmietta.
Non avrei potuto mai dimenticarli e, quando tra quarantamila anni saremo solamente alfa, solamente un numero o solamente la sinapsi di un qualche mago scrittore o di una delle innumerevoli Biancaneve, anche allora, pur senza occhi, la riconoscerò.

Ora, non ricordo di essermi avvicinato così tanto in altre circostanze, cioè, vite, me lo ricorderei, ne son certo, perché Anna lascia tracce indelebili, perché in ogni suo passaggio c’è un solco dietro che nessun vento può trasformare. Lei è la duna fissa, il fossato che si riempie d’acqua generatrice e non ammette ritardi, solo sviluppo cronometrico nel crescere. Niente pause, insomma, niente distrazioni. L’empatia che lega indissolubilmente, che non confonde.
Direte “ma tu è perché ami Anna” no, non è quello, io non amo Anna, questo concetto di amare è superato dalla fusione anche cellulare.

No, io non amo Anna, ne lei ama me.
Parliamo dei figli. Loro, i figli sono la nostra carne che si espande e non si amano, perché  il legame, tutto, è a prescindere. Non è che li conosci ed impari ad amarli, li ami già, fin da bambino, fin da quando ancora non sai nemmeno se mai ne avrai.
I figli sono la nostra carne espansa all’infinito e Anna ed io, siamo figli di noi stessi e proveniamo dallo stesso universo e non ce lo chiediamo nemmeno, ma tanto non lo capiremmo. Io la fecondo e Anna mi partorisce, lei, figlia e madre e me stesso.
Quanta grandezza in due piccole anime. E magari a qualcuno potrà sembrare che siamo soltanto amanti, perché quello che si vede sono solo due corpi vicini!

Di giorno, poi, Anna è tutta la luce che mancava, i reverberi, le sfumature, le nitidezze… ha mille versioni e mille mani e io le conosco tutte.
Anna non dimentica mai nulla e se accade, è voluto. La prima volta che venne a casa mia, dimenticò un giacchetto, con tutto il suo profumo sopra, quell’odore di femmina, che riconoscerei tra milioni. Non era vero, lo so, non era vero che lo aveva dimenticato, lei, questo mio amore selvatico, così istintivo, aveva marcato il suo territorio, la sua casa/tana,  e l’avrebbe difeso con tutte le armi che la sua natura le aveva concesso, ed erano tante. Anna, mia madre, mia figlia, la mia poesia, la mia donna!

Anna, mi fa venire in mente quell’oltre che non sta da nessuna parte, non è soltanto l’universo di parole al quale siamo abituati perché lei, Anna, mi porge una coppa infinita di piccole attenzioni, di enormi tenerezze, di sane malizie di femmina selvaggia che aprono ad un centro assolutamente eventuale, dove ogni cosa si annulla e si ripete senza numeri o conclusioni.
L’amore non si ama perché, appunto, è l’amore, di cui noi!

Probabilmente direte “che bella fantasia, che dolce romanzo…” no, amici, Anna esiste, è vera, è viva, è carne e sensi, è sangue che scorre dentro, fiume impetuoso, delizioso tormento e io, mi lascio trascinare da quest’intimo pulsare.


C’è un’Anna in ogni angolo della vita, basta guardarsi attorno con attenzione, un’Anna per ognuno di noi, che ci vuole, che prende l’aria dalle nostre mani e ce la ripropone carica di lei e dell’essenza che ci permette di vivere fino alla fine il sorriso scemo di chi ama e si lascia inondare dai suoi occhi.

domenica 10 novembre 2013

Black out (1991)




-I porci non mangiano le candele- affermò l’austriaco abbronzato.
-Non è possibile Hans, io li conosco bene. Non è possibile…- rispose la sorella dell’altro.
-E poi, so bene come stanno le cose- aggiunse.
-Allora mi dite perché si sono spente anche le lucciole in quel black out?-
Tania sembrò imbarazzata.
Mosse, nervosa, qualche passo, poi continuò.
-Tacete Hans, vi prego, tacete. Vi dirò quello che so- disse con aria rassegnata. Dire come stavano davvero le cose, le sembro l’unico modo per convincerlo.

L’austriaco spalancò la bocca pronto a ingoiare quella verità con tutto il vestito. Era uno scorpione con ali di farfalla.
-La verità…- continuò lei.
-La verità è nelle loro parole, nei loro capelli, nelle loro mani. La potete vedere nei giochi d’aria dei loro silenzi, nei disegni dei diamanti che navigano nei loro occhi… e nei gigli di sangue e d’amore che sbocciano dai loro passi e nei loro sorrisi segreti…io li conosco bene, bene! Non ho mai visto o sentito l’odore del fango nei loro vestiti di neve e a petto nudo si sono abbracciati davanti a Dio…-
-Mio Dio!- interruppe Hans.
-Senza vergogna, visi di bambino con denti da caimano, senza pudore, senza nulla addosso, senza nemmeno una collana o un orecchino (ingoiato poi dalle fauci complici di un sedile), senza figli, senza spiagge, senza luna, senza nulla per piangere. Solo le lenticchie del buon augurio e con le zampe di porco sulle guance, al posto del pudore. No mia cara, voi siete matta, siete un insieme incoerente di gelsomini e carciofi di mercurio…-
-Basta- gridò Tania.
-Basta, smettetela con le vostre ingiurie. Che ne sapete voi. Io ho visto i loro mignoli cercarsi nel vuoto disperatamente… -
- Con lussuria!-
-No, con amore, con desiderio, con penosa consapevolezza e gioia insieme. Voi siete un mostro d’ignoranza, la bestia che non sa e pretende di sapere, la parte marcia della realtà. Chi vi credete di essere?  Loro, hanno preso dalla gabbia quell’angelo che voi avevate imprigionato con le vostre parole e l’hanno liberato nei loro abbracci. Tacete assassino di sogni, tacete, per carità- nascondendo male qualche lacrima.

Hans non rispose, strinse i pugni di muschio e se ne andò ululando che non sarebbe finita li, che in qualche modo avrebbe messo fine a quell’offesa al “naturale”  svolgimento della vita ed al furto che si consumava giorno dopo giorno ai danni della morale.

Nella rabbia non si accorse di aver dimenticato la valigetta sulla sedia.
Tania la volle aprire con una curiosità non sua e, tra le altre cose, ci trovò una foto di lei con dietro scritto: “ti desidero tanto. Non faccio l’amore senza non pensare a te. Hans.”
Naturalmente non mi disse nulla, anche se, in quel momento, un fenomenale black out spense anche le stelle e la cosa la sconvolse più del resto... un seguito che, comunque, non riusciva a trattenere le valanghe di fango e d’ipocrisia.
La verità, qualunque essa sia, toglie ogni sporcizia mostrando il coraggio di ammettere le proprie debolezze.

Da allora sono andato nudo tenendo alto il nome di chi ama.
Capite, adesso, perché scrivo poesie?

Amante binario (1992)




La stanza era inondata da una tenue e molto soffusa luce che lasciava passare solo le note della Sonata al chiaro di luna.
Solo quelle e nient’altro.
Persino i pensieri di Andrea rimanevano immobili: nascevano e morivano là, in quella splendida mente di poeta, esausta d’esperienza e non amore.
Il salone era abbondantemente arredato di ogni sorta di stimolanti lirici che si era portato appresso da ogni parte del mondo, mentre la tastiera del piano, come uno scheletro antico, splendeva in quella penombra magica come per ricordargli quei morti che non torneranno più.
Tutto questo attorno ad un uomo stanco di cercare lei, quella lei che non aveva trovato in nessun’altra donna, ma i cui tratti aveva intravisto in ognuna di loro.
Lei doveva essere una composizione di brani delle sue poesie; un origami di romanze che gli erano rimaste intrappolate nella memoria; un’esposizione sequenziale di bello e di brutto dentro una caotica quotidianità; la casualità oppure, molto semplicemente, il se femmina estremamente uguale e opposto, talmente complementare da permettere quell’equilibrio che fa si che la luna, non precipiti nel mare e che diventi tutt’uno con la terra, né che ne sfugga afferrata dal sistema esterno.
Intanto, di là, qualcuno si muoveva con cautela, cercando di fare il meno rumore possibile, mentre sistemava la gabbia di Geronimo, il criceto bianco e marrone che le faceva compagnia quando Andrea era fuori per lavoro.
Anastasia si preoccupava di non fare alcun rumore, perché sapeva che lui stava creando e non voleva distrarlo.
In punta di piedi si avviò verso la stanza da letto ma, davanti alla porta del salone, volle fermarsi a guardare. Lui era la, affondato in una sofferenza creativa, sulla sua poltrona-dondolo, con gli occhi chiusi e un bicchiere vuoto nella mano che pendeva a sinistra. Tentava di afferrare quel verso ormai maturo, pronto ad emergere dalla cava dove si era formato. C’era una fornace da qualche parte, nel profondo del suo essere, dove venivano temprate le parole che, poi avrebbero danzato nella sua mente per diventare poesia.
Lo guardava con amore mentre lui stava la immobile ed era come se gridasse il suo nome.
Sentiva distintamente quel pensiero e, come chiamata, si avvicinò.
Era la prima volta che si accostava a lui in quei momenti particolari ma, qualcosa le diceva che doveva farlo, che lui, Andrea, aveva bisogno di lei.
Piano, leggerissima, scivolò sul tappeto, ai suoi piedi, consapevole del suo amore e appoggiò la testa sulla sua gamba mentre un sapore di malinconica tristezza e gioia insieme, le scendeva lungo il corpo fino ai piedi che, con spontanea femminilità, aveva raccolto sotto di lei.
Andrea sembrò non accorgersi di tutto ciò, voglio dire che non si scosse per niente ma, un momento dopo, le poggiò la mano sui morbidi capelli e prese ad accarezzarli con delicatezza.

 Brucia come il fuoco
di un ceppo perenne
questa smania
di trovare l’altra fiamma
che, pur confondendosi
con la mia
manterrà immutati
i propri petali

La macchina che correva dietro le palpebre chiuse di Andrea, d’un tratto mise le ali, s’impennò e volò insieme ai suoi pensieri, verso il centro di un vortice di ricordi.
Sul suo viso si disegnavano le espressioni ora tristi, ora appena allegre, ma sempre all’interno di una costante immagine malinconica, man mano che i pensieri affluivano e vorticavano da un lobo all’altro del suo cervello.
C’erano tutti in quel quasi-sogno e tutti lo aiutavano a muovere, con la giusta armonia, quella mano sui capelli di Anastasia.
A un certo punto, quasi alla fine del secondo movimento della Sonata, Andrea mosse il capo lentamente, girandolo verso di lei. Aprì pian piano gli occhi lucidi di lacrime, per guardarla e lei, come se avesse sentito quel silenzioso movimento, alzò il suo viso pieno di tenerezza verso il suo compagno. Lui la guardò come si guarda una qualcosa o qualcuno che conosci da sempre: con il suo pullover rosa, i suoi larghissimi pantaloni ghiaccio e le affusolate dita che, molto lentamente, si muovevano sulla sua gamba; lei, la stessa di sempre, sempre uguale.
Richiuse gli occhi.
La macchina nella sua mente correva sempre più velocemente, fin quando non cominciò a roteare dentro un immenso imbuto di memorie che ormai avevano perso ogni forma e somigliavano alle migliaia di corde che lo legavano al passato.
Poi l’auto si capovolse e sprofondò in un abisso senza fine, sempre più giù, verso qualcosa che non si conosce, verso un buio che è veramente buio, quella immensa voragine che ci inghiotte quando dentro di noi è solo vuoto, persino di paure.
E continuò a cadere finché un’accecante luce non esplose nella sua testa.
Scosse il capo e, girandosi verso di lei, riaprì gli occhi per guardarla ancora e la vide all’interno di un miracolo, sostenuta da un’energia che proveniva dall’origine, dal centro del cuore.
Anastasia era come avvolta da una luce nuova, diversa, strana forse, quasi non umana. Non la sentì più sua, com’era abituato a percepirla, erano un sistema dentro di un’enorme fascia di sentimenti che avvolgeva i loro corpi pur lasciando chiara
l’identità, un effluvio di sostanza e spirito che, in un’elisse perfetta, li legava come due pianeti ruotanti intorno ad un fulcro comune, un punto che era il contrario di loro, fatto di tutto ciò che non erano, cioè di assenza, di separazione, di annullamento. E loro mantenevano sotto controllo quel fulcro del non-esistere, del non-amore, dell’urgenza fisica che trova ogni sua casuale solo nella sessualità o, peggio che mai, nell’opportunismo.
Ma laddove la materia non esisteva più e quindi non c’erano motivazioni corporali, là, in quell’universo regolato solo da impulsi sentimentali, c’era solo amore, quello che non siamo più abituati a riconoscere nei volti dei nostri cosiddetti “partner perfetti” né, persino nella natura circostante. Non più, solamente amante, ma qualcosa che completava quella funzione con l’apertura di sequenze spirituali in armonia tra loro. Chimiche naturali, punti equidistanti in uno spazio creato solo per loro attraverso forze esistenziali che ne mantenevano la consistenza e l’equilibrio.

Oh carezza d’occhi
rosa mutata fiamma.
Oh effluvio di parole
senza voce,
di baci senza labbra
oh magica armonia
di sentimenti
per sempre snodati
e disciolti nella mente:
Oh amore!

Andrea sapeva di essere un sistema binario e sapeva che prima o poi, dall’altro capo della corda, avrebbe visto materializzarsi quegli occhi e quelle mani ma, non sapeva di averla così vicina… e lei era là, vicinissima anche nella mente, essenziale per vivere, indispensabile per mantenere un equilibrio perfetto, su un piano perfetto, su una perfezione “umana”, la meno imperfetta possibile. Lei, la dolce Anastasia non sapeva di essere quel ponte fatto di sostanza d’amore e di vaghe molecole corporee, lei non sapeva di essere il puntino coronato che può allungare la nota all’infinito; pensava di essere soltanto una donna, la più fortunata forse, la più emancipata, la più tutto quello che vogliamo ma, non sapeva di essere “la donna”, l’altro pilastro di quell’immenso ponte che la congiungeva ad Andrea e a nessun altro essere al mondo. In quei grandi occhi di muschio, ora non si muovevano più mille lune ma mille galassie, mille universi con tutte le loro divinità.
Anastasia era l’universo identico e opposto all’universo di Andrea, in una dimensione che soltanto loro riconoscevano tra i mucchi di ricordi e di scarpe e di sedie e di impianti stereo e di uomini.

venerdì 8 novembre 2013

da "Ho incontrato un angelo" (1992/2013)


L'incontro




Avevo già finito il mio turno e, dopo aver scambiato due parole con Saro, nella piazza antistante al teatro, presi l’auto e andai verso casa, prendendo la strada del porto che a quell’ora era meno trafficata.Ero sovrappensiero, ma non mi sfuggi una figura familiare. Era di spalle e osservava qualcosa in lontananza, forse la chiesa oppure il palazzo accanto. Rallentai fino a fermarmi a circa due metri da lei che sembrò percepirmi.
«In quella chiesa ricevetti l’estrema unzione, ed è uno degli ultimi ricordi prima di cadere in un lungo buio» Disse girandosi,sicura della mia presenza.
Scesi dall’auto e mi avvicinai.
«Posso toccarti?» chiesi con le gambe che mi tremavano e il cuore impazzito.
«Certo che puoi» sorridendo.
Le presi le mani, quelle magiche mani di velluto, istintivamente le portai alle labbra baciandole e lei mi lasciò fare lusingata.
«Chissà quante volte e in quanti hanno dichiarato la tua bellezza» le dissi ammirato.
«Non di recente» rispose ironica.
Entrammo in macchina.
«Mi porti ad Acitrezza, vicino al mare?»
«Anche in capo al mondo…»
«Lì conviene che ti ci porti io e al momento giusto»
rispose sorridendo.
«Quando sarò “morto” anch’io?»
«Ma no, quando nella tua mente ci sarà spazio sufficiente per capire la realtà reale»
«Perché hai scelto me?»
«Perché mi hai rispettata, perché mi hai amata, perché non mi hai tradita, perché mi hai…cercata…»
Lei si girò a guardare la strada pensosa mentre io cercavo di interpretare quelle sue parole. Di cosa parlava, cosa voleva dire.
«Parlo dell’amore che rappresentiamo, quello originale e unico.» Percependo il mio pensiero.
“Come possiamo, entrambi, rappresentare l’amore” pensavo contorcendo il cervello per districare quella matassa. “siamo materia diversa, non è possibile che percepiamo i sentimenti allo stesso modo”.

Fermai la macchina sul molo del porticciolo di Acitrezza, lei scese e camminò per un paio di metri. Arrivò sul ciglio e lì se ne stette immobile per circa dieci minuti a braccia quasi aperte e il viso contro il sole. Sembrava che stesse pregando, forse, celebrando quel reale o meglio, quella parte di reale che conoscevamo entrambi e in quel controluce la vedevo scintillante, evanescente, una specie di fata di una fiaba moderna contornata da un alone luminoso che si espandeva sempre più come se ricevesse energia dal paesaggio stesso.
«Pregavi?»
«Non precisamente, mi metto in contatto con l’essenza di quello che vedo per allargarne l’immagine reale.»
«Ma… di che sostanza sei fatta, come ti muovi attraverso le realtà e come puoi essere, quando un attimo prima non eri?»
«Come la luce, mi svelo sottraendomi al nascondimento e mi offro così come si offrono tutte le cose» disse lei muovendo le mani come in una danza, come se raccogliesse le parole dall’aria circostante. Il suo tono di voce sembrava più sommesso, quasi solenne.
«Cioè, la luce è assenza di buio? Come la verità dei greci che priva il nascosto del nascondiglio svelandolo?»
«Proprio così. la luce è dentro il buio: nascosto e nascondiglio.»
«E tu, sei la luce?»
«No…no davvero, sono solo una piccola parte della verità nascosta.»
«Quindi, in un certo qual modo, la sconfitta della supremazia del reale.» risposi soddisfatto.
L’abbattimento del supremo dominio del reale, mi avrebbe permesso di ottenere attenuanti per non passare come folle allucinato o chissà cos’altro. Ma tutto era cosi intimo…ci sarebbe voluta un’invasione per salvarmi!
«In un certo senso. Questa realtà, non è tutto ciò che si percepisce sensorialmente, è un territorio di gran lunga più vasto di quello che si conosce e che conobbi anch’io… e non è al di là o al di qua, è dentro ogni essere, proprio come la luce. Basta togliere il nascondiglio e la verità si svela.»
«Non più “energia” aristotelica, cioè esistenza in atto, presenza effettiva. L’esserci va oltre l’essere qui, in questo momento…»
«Ed io ne sarei una prova.» Sorrise entrando in macchina. Mi sedetti anch’io.
«Ma… e la forma, la materia?»
«Riprendere per un breve, molto breve, periodo la propria forma, non è cosa facile, ma non è complicatissimo. Lo è, invece, prendere consistenza corporea; per quello ci vogliono decine, a volte, centinaia d’anni di “addestramento”, ma soprattutto, una grandissima volontà di farlo.»
«Incarnarsi?»
«Oh, quello è molto più complesso di quanto si possa credere, sia per il soggetto consenziente sia per l’incarnante. Un po’ meno quando il soggetto è inconsapevole e, comunque, parliamo di grandi energie per pochi minuti… giusto il tempo per “correggere” un andamento o anche per rivivere un attimo, un profumo, un abbraccio o altro che ti ricordi alcune piacevolezze di quel passato.» mi spiegò rattristandosi un tantino.
«Non ti fa male il ricordo?»
Lei non rispose ma percepivo una piccola sofferenza in quel silenzio.
«Dimmi delle coincidenze» ripresi.
«Ma le coincidenze sono come prendere un passaggio. Si approfitta di questa intersecazione e basta un piccolo salterello senza dispendio di tanta energia.»
«Vuol dire che puoi “venire” qui anche senza le coincidenze?»
Lei confermò con un cenno del capo, mentre odorava un piccolo ciondolino che tenevo nel portaoggetti.
«Chi te lo ha dato?»
«Sinceramente non ricordo!»
«Non è buono.»
Stavo per buttarlo via, ma lei intervenne.
«Non è necessario buttarlo, ti basta sapere che non è buono.»
Questa sua ultima affermazione mi fece pensare che in fondo siamo noi che diamo potere alle cose. Un coltello non è buono se lo usiamo per uccidere, ma lo diventa quando sbucciamo una patata o tagliamo delle verdure, ad esempio. Bisogna utilizzare nel modo più opportuno a noi le cose che il mondo e la vita ci propongono assumendocene, ovviamente, ogni responsabilità.
«Lasciami dove mi hai trovata, per favore. Ho da controllare alcune cose.»
«Ma…» Mi fermò con un gesto della mano che subito diventò una carezza. Era la prima volta che mi “toccava” e la sensazione fu di grande completamento. Sentii la sua mano sul mio viso, prima ancora che vi arrivasse come se quel gesto viaggiasse più velocemente del pensiero e questo,per un momento, mi fece sentire simile a lei, di un’altra sostanza.
Stava accadendo qualcosa, stavo, evidentemente,subendo una trasformazione che mi avvicinava a un “essere” diverso, di certo,più completo. Guardai la mia mano e, d’un tratto, sentii tra le dita un muoversi di capelli, ma era come se stessi accarezzando le cime degli alberi di una foresta o le spighe di un immenso campo di grano. Sembrava che l’intero mondo si fosse rimpicciolito ed era lì, tra le mie mani.
«Puoi avere tutto l’universo fra le dita» disse sorridendo davanti al mio stupore e mi penetrò con i suoi occhi invadendomi di tutto quel verde brillante.

da "L'errore" (2013)





L’impiegato lesse attentamente la sua richiesta di cambio di residenza e domicilio, poi gli chiese garbatamente di attendere.
L’ufficio era il classico ufficio anagrafico di un paesino del sud, quasi di “frontiera”, con impiegati sudaticci e non ancora del tutto digitalizzato. In tutto quattro uomini e due donne che, nel generale, cercavano di far trascorrere il tempo nel migliore dei modi. Il tipo garbato che si occupava del documento di Cetto era scomparso dietro la porta di fronte he aveva bisogno di una restaurazione energica, tanto era consumata. Anche i muri avevano quel tipo di necessità, screpolati in basso dall’umidità e sporchi di ogni sorta di sporco ad altezza uomo. Sul grande mensolone-scrittoio, spiccavano piccole cordicelle che avrebbero dovuto trattenere delle penne ormai d’altri proprietari e, in ordine troppo sparso, mille fogli di carta che alla fine della giornata sarebbero finiti nella spazzatura, come se fossero qualcosa che cade dal cielo e non il prodotto della distruzione di un albero.
Cetto non era particolarmente stanco ma, in quel momento, desiderava trovarsi a casa sua, con i suoi pantaloncini leggeri, i suoi sandali ridotti all’osso, magari a oziare dignitosamente, oppure andare avanti col quel romanzo che ormai si tirava dietro da troppo tempo e che non portava mai a termine. L’eventuale successo di quel libro, avrebbe significato tanto per lui, non tanto per i soldi, quanto per il fatto che era riuscito a raccontare a qualcun altro che non fossero i gatti, tutto quello che si portava dentro. Non era una storia avventurosa, né d’amore particolarmente idilliaco, erano solo pensieri che raccontavano di solitudine e di taciti accordi con la natura attorno a sé, natura, della quale ogni giorno percepiva i tentativi di sopravvivenza e si domandava per quanto tempo ancora avrebbe resistito agli attacchi dell’uomo cosiddetto civile.
-Signor Di Stefano?- Chiese il tipo garbato
-Si- Rispose Cetto alzandosi.
-Deve avere cinque minuti ancora di pazienza giusto il tempo che il direttore firmi i documenti-
Cinque minuti! In cinque minuti si possono firmare i documenti di tutti gli abitanti del paese -pensava Cetto.
Già. comunque, sentiva il fresco sotto la veranda e l’odore di menta che gli faceva da contorno, i giochi assurdi dei gattini, la pacata e protettiva figura dell’enorme eucalipto di fronte, persino le zanzare che infastidivano ma non più di tanto. Aveva venduto la casa in città che i genitori avevano lasciato in eredità che comprendeva anche quella casa di campagna che con piccole ristrutturazioni era diventata la sua dimora e non aveva grandi necessità, al momento, di trovarsi un lavoro o qualche fonte di reddito. Poteva benissimo occuparsi di quelle sue piccole “cose” che aveva sempre rimandato a tempi più sereni e quelli, sembrava che lo fossero.
Entrarono due carabinieri che si diressero allo sportello, dove il suo impiegato preferito li accolse.
Come solitamente accade, si trattava di un giovane ben impeccabile nella sua divisa e di un altro un po’ più avanti negli anni con una, comunque, non sgradevole trasandatezza. I tre mormorarono qualcosa poi i due militari si girarono verso Cetto.
-Di Stefano Concetto?-
-Si, sono io- alzandosi.
-Lei è in arresto per l’omicidio di Nicola Terrasanta, avvenuto a …-
Il sangue di Cetto si fermò così come tutto ciò che gli stava attorno. Non riusciva a pensare, sembrava che non ci fosse nulla in grado di sbloccare anche una sola parola. Tutto era immobile. Cetto sentì il rumore delle manette e il freddo metallo attorno ai polsi ma era come se non ci fosse più un sistema nervoso nel suo corpo, incapace di qualsiasi tipo di reazione.
Qualche minuto dopo era solo dentro una cella di sicurezza della vicina stazione dei carabinieri e solo allora, qualche parvenza di pensiero cominciava a formarsi. Ma erano tratti isolati, confusi, pensava ai gatti, all’orto che aveva bisogno d’acqua, al finestrone che aveva lasciato aperto. La sua casa, con tutti i suoi abitanti, aveva bisogno di lui che, in quel momento, non poteva fare altro che attendere.
“Nicola Terrasanta, e chi diavolo è Nicola Terrasanta”, pensava.
Nei suoi quasi quarant’anni, Cetto, era sicuro che gli unici esseri viventi che aveva ucciso fossero qualche zanzara e qualche scarafaggio ignorante, oltre al fatto che era del tutto vegetariano per non avere sensi di colpa nei confronti di quegli animali che l’uomo aveva eletto proprio nutrimento e, per quanto si sforzasse, non riusciva a collegare la sua vita con un omicidio.
Le due cose erano talmente distanti tra loro che qualsiasi volontà di collegamento si disperdeva come poca acqua dentro una grondaia secca da anni.