lunedì 13 maggio 2013

da "Marta" (2013)




Non c’era una portineria, quindi dovetti chiedere informazioni al vicinato.
«Conosce una ragazza sui venticinque, magra, minuta, capelli scuri, mossi sulle spalle…»
«Marta!» m’interruppe l’edicolante all’angolo, proprio di fronte al 26.
«La vedo tutte le mattine… è successo qualcosa?»
«Oh, no, solo informazione personale.»
Il tipo mi conosceva e, magari, pensava a qualche indagine di Polizia.
«Ha comprato un libro tre giorni fa, pensi, era felice perché era l’ultimo, io non ne tengo molti, giusto una mezza dozzina per tipo, ma lei si sentiva fortunata. E’ bella la semplicità, e lei è molto bella.» disse ammiccando.
Poi mi disse di un signore anziano, Vincenzo, siciliano, che si occupava, in un certo qual modo, degli affari del condominio e, sicuramente la conosceva meglio.

«Faccio qualche riparazione, vado alla posta a pagare le bollette di tutti, mi occupo dell’aiuola… sa, con la pensione … dò una mano insomma…»
Un uomo tranquillo, dall’espressione buona, di quelli che mettono qualche spicciolo da parte per i nipotini.
«Marta è una brava ragazza, educata e intelligente, però, ultimamente o visto che frequenta cattive amicizie, secondo me. Mi dispiace se si è cacciata in qualche guaio.»
«Nessun guaio. Si è sentita male e adesso è in ospedale.»
«Oh…»
«Niente di grave, se la caverà, solo che non aveva documenti con sé e vorremmo saperne di più, tutto qua. Ma mi dica Vincenzo, cosa intende per “cattive amicizie”?»
«Ma c’era un tipo che veniva spesso e molte volte rimaneva a casa con lei, penso che stessero insieme. Non mi è mai piaciuto quel tizio. Li sentivo litigare e mi veniva voglia di andare su e dirgliene quattro e sono sicuro che la picchiasse.»
«E che fine a fatto questo qui?»
«E’ da un po’ di mesi che non lo vedo, sembra sparito ma meglio così, mi creda!»
Mi fermai là nel fare domande, non volevo forzare o mettere in difficoltà quel signore, né volevo far sembrare, quello, un interrogatorio, ma riuscii a convincerlo ad aprirmi la porta dell’appartamento di Marta.

Una sola stanza con piccolo bagno e cucinino, un po’ disordinata ma pulita. L’aria non era opprimente, anzi, un tenue odore d’incenso e di patchouli davano un tocco di misticismo orientale, tipico di quegli anni. Il letto disfatto da un solo lato, lasciava intuire che ci dormiva da sola. Un paio di peluche su una poltroncina, e delle strane e buffe ciabatte sul tappetino ai bordi del letto.
C’era una scrivania che attirò la mia attenzione per le tante cianfrusaglie che vi stavano sopra. Cinque o sei foto di lei da sola, in pose divertenti e una con una ragazza abbastanza giovane, forse, di qualche anno più piccola di lei. Mi resi conto della sua bellezza e vitalità e mi chiedevo cosa fosse cambiato da quei momenti, almeno in apparenza, sereni.
Sul piano c’era un quaderno.
“Sono davvero stanca, ho perso quasi tutto… mamma, dove diavolo sei…”.
Era una specie di diario e quella era l’ultima cosa scritta. Tra le pagine, un paio di margherite secche e qualche foto di una signora sui quaranta, quarantacinque, molto somigliante: la madre. Dalle didascalie sul retro, mi sembrò di capire che fosse morta ma non ne avevo la certezza. Il diario partiva da qualche mese prima ma dovevo e volevo leggerlo con attenzione.
Su una cassettiera, un vasetto della marmellata con delle margherite ancora fresche, alle quali cambiai l’acqua e sul comodino un libro: “Storie contadine dalla valle”.

“Una casa rispecchia il carattere della persona che ci vive e ne trasmette intensamente le passioni” pensavo.
Mi sedetti sul divano e la immaginavo muoversi in quella stanza, vivace, serena, piena d’amore e rispetto.
“Prepariamo un dolce?” immaginavo dicesse.
“Sono golosa, è peccato lo so, ma che m’importa.  Vieni, prepariamolo insieme…”.
“Dai, non so fare i dolci!”
“Vieni te lo insegno. Poi andiamo al parco e ti parlerò del mio cielo”.

Mi sentivo soffocare dal pensiero che poteva non tornare più in quella casa, provavo angoscia e mi assaliva un senso di responsabilità che in realtà non avevo, ma ho sempre pensato che quando si parla di esseri umani, ognuno è responsabile del prossimo considerando l’inviolabilità della libertà. Ma lei non era cosciente in quel momento, e aveva bisogno di qualcuno che la riportasse a casa, al sicuro.
Presi il “diario” e un paio di foto.

Presi a leggere sul quaderno.
“Oggi non è stata una giornata felice, sono stata al Valentino per parecchie ore, ma il sole non riesce più a scaldarmi. Il ricordo dell’incidente mi tormenta e non mi lascia un attimo. Sono triste e non credo che riuscirò a uscirne. Vorrei morire e mi dispiace per quell’amore che, magari, è dietro l’angolo e che non vedo. Ma forse non c’è proprio un amore, forse la mia vita è solo questo…freddo freddo…”.

I monitor, i tubi, la macchina che le permetteva di respirare sembravano proprio al loro posto, solo lei non doveva stare là. Avrebbe dovuto essere al parco, al mare o in qualsiasi altro luogo che la rendesse serena ma non lì.
«Marta, piccola, non lasciare che tutto finisca qui, ribellati, ti prego, respingi questa morte, non permettere che ti tocchi.»
Mi accorsi di piangere mentre sfioravo il suo braccio esile e bianco e mi resi conto della necessità che cominciavamo ad avere entrambi, di vincere quella battaglia. Ero certo che mi percepiva, che riusciva a sentire l’enorme affetto che le versavo e la grande voglia di vederla “vivere”. Ecco perché parlavo anche in vece sua, per questa certezza che non volevo abbandonare. 


Nessun commento:

Posta un commento