…
Non c’era una portineria, quindi dovetti chiedere
informazioni al vicinato.
«Conosce una ragazza sui venticinque, magra, minuta,
capelli scuri, mossi sulle spalle…»
«Marta!» m’interruppe l’edicolante all’angolo, proprio
di fronte al 26.
«La vedo tutte le mattine… è successo qualcosa?»
«Oh, no, solo informazione personale.»
Il tipo mi conosceva e, magari, pensava a qualche
indagine di Polizia.
«Ha comprato un libro tre giorni fa, pensi, era felice
perché era l’ultimo, io non ne tengo molti, giusto una mezza dozzina per tipo,
ma lei si sentiva fortunata. E’ bella la semplicità, e lei è molto bella.»
disse ammiccando.
Poi mi disse di un signore anziano, Vincenzo,
siciliano, che si occupava, in un certo qual modo, degli affari del condominio e,
sicuramente la conosceva meglio.
«Faccio qualche riparazione, vado alla posta a pagare
le bollette di tutti, mi occupo dell’aiuola… sa, con la pensione … dò una mano
insomma…»
Un uomo tranquillo, dall’espressione buona, di quelli
che mettono qualche spicciolo da parte per i nipotini.
«Marta è una brava ragazza, educata e intelligente,
però, ultimamente o visto che frequenta cattive amicizie, secondo me. Mi
dispiace se si è cacciata in qualche guaio.»
«Nessun guaio. Si è sentita male e adesso è in ospedale.»
«Oh…»
«Niente di grave, se la caverà, solo che non aveva
documenti con sé e vorremmo saperne di più, tutto qua. Ma mi dica Vincenzo,
cosa intende per “cattive amicizie”?»
«Ma c’era un tipo che veniva spesso e molte volte
rimaneva a casa con lei, penso che stessero insieme. Non mi è mai piaciuto quel
tizio. Li sentivo litigare e mi veniva voglia di andare su e dirgliene quattro
e sono sicuro che la picchiasse.»
«E che fine a fatto questo qui?»
«E’ da un po’ di mesi che non lo vedo, sembra sparito
ma meglio così, mi creda!»
Mi fermai là nel fare domande, non volevo forzare o
mettere in difficoltà quel signore, né volevo far sembrare, quello, un
interrogatorio, ma riuscii a convincerlo ad aprirmi la porta dell’appartamento
di Marta.
Una sola stanza con piccolo bagno e cucinino, un po’
disordinata ma pulita. L’aria non era opprimente, anzi, un tenue odore
d’incenso e di patchouli davano un tocco di misticismo orientale, tipico di
quegli anni. Il letto disfatto da un solo lato, lasciava intuire che ci dormiva
da sola. Un paio di peluche su una poltroncina, e delle strane e buffe ciabatte
sul tappetino ai bordi del letto.
C’era una scrivania che attirò la mia attenzione per
le tante cianfrusaglie che vi stavano sopra. Cinque o sei foto di lei da sola,
in pose divertenti e una con una ragazza abbastanza giovane, forse, di qualche
anno più piccola di lei. Mi resi conto della sua bellezza e vitalità e mi
chiedevo cosa fosse cambiato da quei momenti, almeno in apparenza, sereni.
Sul piano c’era un quaderno.
“Sono davvero stanca, ho perso quasi tutto… mamma,
dove diavolo sei…”.
Era una specie di diario e quella era l’ultima cosa
scritta. Tra le pagine, un paio di margherite secche e qualche foto di una
signora sui quaranta, quarantacinque, molto somigliante: la madre. Dalle
didascalie sul retro, mi sembrò di capire che fosse morta ma non ne avevo la
certezza. Il diario partiva da qualche mese prima ma dovevo e volevo leggerlo
con attenzione.
Su una cassettiera, un vasetto della marmellata con
delle margherite ancora fresche, alle quali cambiai l’acqua e sul comodino un
libro: “Storie contadine dalla valle”.
“Una casa rispecchia il carattere della persona che ci
vive e ne trasmette intensamente le passioni” pensavo.
Mi sedetti sul divano e la immaginavo muoversi in quella
stanza, vivace, serena, piena d’amore e rispetto.
“Prepariamo un dolce?” immaginavo dicesse.
“Sono golosa, è peccato lo so, ma che m’importa. Vieni, prepariamolo insieme…”.
“Dai, non so fare i dolci!”
“Vieni te lo insegno. Poi andiamo al parco e ti
parlerò del mio cielo”.
Mi sentivo soffocare dal pensiero che poteva non
tornare più in quella casa, provavo angoscia e mi assaliva un senso di
responsabilità che in realtà non avevo, ma ho sempre pensato che quando si
parla di esseri umani, ognuno è responsabile del prossimo considerando
l’inviolabilità della libertà. Ma lei non era cosciente in quel momento, e
aveva bisogno di qualcuno che la riportasse a casa, al sicuro.
Presi il “diario” e un paio di foto.
…
Presi a leggere sul quaderno.
“Oggi non è stata una giornata felice, sono stata al
Valentino per parecchie ore, ma il sole non riesce più a scaldarmi. Il ricordo
dell’incidente mi tormenta e non mi lascia un attimo. Sono triste e non credo
che riuscirò a uscirne. Vorrei morire e mi dispiace per quell’amore che,
magari, è dietro l’angolo e che non vedo. Ma forse non c’è proprio un amore,
forse la mia vita è solo questo…freddo freddo…”.
…
I monitor, i tubi, la macchina che le permetteva di
respirare sembravano proprio al loro posto, solo lei non doveva stare là.
Avrebbe dovuto essere al parco, al mare o in qualsiasi altro luogo che la
rendesse serena ma non lì.
«Marta, piccola, non lasciare che tutto finisca qui,
ribellati, ti prego, respingi questa morte, non permettere che ti tocchi.»
Mi accorsi di piangere mentre sfioravo il suo braccio
esile e bianco e mi resi conto della necessità che cominciavamo ad avere
entrambi, di vincere quella battaglia. Ero certo che mi percepiva, che riusciva
a sentire l’enorme affetto che le versavo e la grande voglia di vederla
“vivere”. Ecco perché parlavo anche in vece sua, per questa certezza che non
volevo abbandonare.
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